C’è naïf e naïf, quello più genuino e quello più elaborato, quello più naturale e quello più colto, ma tutti trasmettono una visione rasserenante della vita, un mondo irradiato dai sogni, dove natura e uomo si fondono in armonia, dove sfuggono i canoni visivi tradizionali e si è sempre in una dimensione quasi d’assenza di gravità. Benassi ha cominciato a dipingere per gioco, usando supporti poveri quali cartoni di scatole di cioccolatini e colori semplici come le tempere, eppure ha creato mondi incantati e forgiato uno stile unico e personalissimo. Il richiamo inevitabile è ai mosaici bizantini, sia in quel puntinismo che niente ha a che vedere con quello scientistico di Seurat o Signac, sia nella bidimensionalità dove le figure simboliche e significanti sono evidenziate dalle proporzioni e non dalla costruzione prospettica. Il suo occhio, come l’occhio divino nel Medioevo, tutto vede e i paesaggi, le figure, le strade, le abitazioni volano in primo piano. Non ci sono ombre, spessori, ma una fusione panica tra gli esseri, mentre i fittissimi puntini collegano tutte le figure, producendo l’effetto di un tessuto prezioso, di un’infinita tela di Penelope dove lo sguardo finisce col perdersi.
Benassi arricchisce ogni visione con questi germogli di luce; dentro alle figure umane troviamo fiori, tra le piante s’intravedono corpi, i palazzi dalla fisionomia orientale ricordano selve variopinte, dove le geometrie sono campiture di vita. Non c’è tempo, non c’è un luogo preciso, ma un’eternità indefinita e paradisiaca. Anche nella rappresentazione del presepio, la sacralità è nella semplicità dei legami, delle azioni più elementari e umili, nel dono gratuito della bellezza e dell’amore. L’artista celebra in ogni opera i valori più antichi e profondi: la famiglia, la maternità, la contemplazione del mondo, la gioia di vivere. Lo definirei il Matisse dei naïf per questa sua espressione d’armonia universale, per le colte citazioni delle rappresentazioni dei vasi greci ed etruschi. E quello che a torto potrebbe essere definito decorativismo, in realtà è giubilo ed esaltazione di una perenne primavera e rinascita all’insegna della libertà (questo infatti significano i suoi amati cavalli e gli uccelli). Del resto il Natale è proprio questo, la rinascita dell’amore, della speranza, il divino nell’umano e in tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi. Come icone allora le opere di Benassi sono preghiere e ringraziamenti col cuore colmo di riconoscenza e ogni puntino realizzato col pennello è un piccolo atto d’amore, una collana di perle e fiori che sale fino al cielo e non termina mai. La sua pittura è una storia senza fine.
Nel mondo fantastico di Giuliano Zoppi ci sono gatti, cagnolini, asini, colombi e tanti personaggi tutti intenti a fare qualcosa o a guardare in su, come in attesa. E ci sono pievi antiche e poi tante torri da dove sbucano, s’arrampicano, escono, volano altri innumerevoli omini affaccendati. La torre è come l’albero della vita, un emblema svettante, fatto dagli uomini per essere più vicini al cielo. E del resto Zoppi mostra sempre nei suoi cicli questa volontà di ascesa, basta vedere i temi prediletti (le torri, le arche, le pievi, gli alberi) e quei personaggi quasi sempre girati di spalle a osservare in alto, proprio come i pastori nel Presepe in cerca della stella cometa. La sua pittura indubbiamente naïf soprattutto per il suo essere docilmente serena e rasserenante, è ricca di simboli e pare sottendere un continuo procedere verso qualcosa di superiore, un pellegrinaggio interiore espresso con l’arte. Non a caso egli ha realmente percorso la via Francigena raffigurando le pievi del nostro territorio, non a caso ha realizzato tutte queste torri animate ed enormi alberi, ognuno dei quali con un messaggio preciso. E poi l’Arca di Noè rivisitata a raccogliere e salvare tutti i nostri sogni.
Chissà mai cosa osserva e soprattutto cosa aspetta quel piccolo gattino nero col collare rosso che contraddistingue tutti i quadri dell’artista, una vera e propria firma. Credo incarni l’autore e insieme l’osservatore curioso e stupito del creato e dei suoi miracoli quotidiani. Assiste e inconsciamente c’introduce alla misteriosa eterna festa dell’esistenza. Nell’arte di Zoppi c’è qualcosa del dinamismo e della vivacità dei pittori fiamminghi seicenteschi, pur tuttavia senza i dettagli drammatici o grotteschi. Siamo nel mondo perfetto dei buoni sentimenti condivisi, della gioiosa partecipazione alla vita di uomini e animali in armonia, come accade nel carosello immaginifico della fantasia, nel giardino dell’Eden o in un Paradiso ante litteram.
Del resto – ci dice con la sua pittura - siamo tutti in cammino, tutti tesi a cercare una stella di luce, una speranza che non si estingue mai.